“Attenti al cane” avremmo potuto leggere all’ingresso del lungo sentiero alberato che conduceva alla villa rustica di Gaio Falerio. La domus si stagliava imponente sui campi appena arati e pronti alla semina, dietro di essa le montagne ancora cariche di neve. La primavera tardava a scaldare questo angolo d’Impero dove la vita scorreva lenta e i ritmi erano scanditi dal lavoro nei campi. Roma era lontana, tanto quanto le estese pianure della Gallia che Falerio aveva percorso senza sosta negli ultimi otto anni. Servire Cesare era sempre stato il suo scopo e ciò che sapeva fare meglio, e questa tacita obbedienza l’aveva portato oltre il grande lago, lungo la Via Settimia e ancora più in là, scavalcando le montagne che si confondevano con le nuvole, per scoprire terre sconosciute, ammansire uomini che avevano in corpo demoni oscuri e che si facevano chiamare Galli.
La pax romana aveva messo fine ad anni di guerre e i soldati tornavano alle loro case, qualcuno un po’ più ricco, come Falerio, che aveva potuto godere della generosità di Cesare. Per i suoi meriti in battaglia gli era stata concessa una domus rusticanae, una fattoria circondata da campi fertili adatti alla coltivazione e all’allevamento del bestiame.
Falerio amava quel luogo ricco di acque, pianeggiante e facile da lavorare, vicino alla città di Novaria, che cresceva velocemente e che sarebbe diventata nel giro di pochi anni un centro di commerci e mercati.
Il momento era propizio e Falerio lo sapeva. Anche il suo amico Polito era d’accordo: gli Dei avevano concesso loro buoni raccolti, le famiglie erano cresciute, le campagne prosperavano e la città si arricchiva.
Anche in questo angolo di Impero era necessario portare il progresso per rendere più semplice la vita dei suoi abitanti, per dimostrare a tutti che la vita da cittadini di Roma era la migliore che si potesse desiderare.
I lavori per la costruzione dell’acquedotto iniziarono in estate. Già durante la fine dell’inverno i cavatori specializzati e gli schiavi avevano ammassato una quantità notevole di ciottoli scelti con cura nell’alveo e nelle pietraie della Sesia. Li avevano trasportati con i carri e disposti in pile lungo la Settimia. Altri operai li avevano selezionati scegliendo i più adatti per dimensioni e forma.
Nei forni erano stati cotti i mattoni sesquipedali, cioè con un lato che corrispondeva ad un piede e mezzo e che sarebbero serviti per l’alveo, la cavità interna dove sarebbe passata l’acqua.
I ciottoli, intonacati a calce, costituivano le sponde, e terminavano sulla sommità ricoprendo l’alveo non con arcate, come si era soliti fare, ma con una struttura piana.
L’acqua, deviata dal torrente Agogna, alimentava l’acquedotto che raggiungeva Novaria, garantendo l’approvvigionamento delle fontane e delle terme pubbliche.
Falerio aveva creduto nel progetto si da quando lo aveva visto disegnato su una pergamena e aveva speso una cospicua somma per vederlo realizzato.
Ora il suo sogno stava per compiersi: l’acqua avrebbe deviato il suo corso dal torrente e avrebbe invaso l’alveo in mattoni. Le fattorie lungo il suo corso avrebbero beneficiato di acqua fresca e corrente come accadeva già in altre parti dell’Impero.
Non so dirvi se sia andata proprio così, certo è che quando ho percorso a piedi i quasi due chilometri dell’antico acquedotto, ho immaginato gli uomini che l’hanno edificato e mi sono ritrovata in un mondo lontano, nel nostro passato.
Pare che l’acquedotto non abbia avuto molta fortuna, forse un difetto di progettazione lo rese inutilizzabile dopo poco tempo dalla sua costruzione, tanto che l’alveo fu riempito da una colata di malta e ciottoli.
Il reperto è di un certo valore perché rappresenta un unicum in territorio novarese. Si trova sulla strada che da Novara va verso il Lago d’Orta (l’antica via Settimia) prima dell’abitato di Caltignaga, in località Isarno.
Si conserva un lungo tratto ed è facilmente visibile dalla statale. Si può percorrerlo sulla sua sommità per tutta la lunghezza, tra risaie e campi coltivati.
In fondo si vedono le montagne innevate e in lontananza si sente un cane abbaiare.
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