Ferragosto a Milano: fenicotteri, teschi e boschi verticali
Quando mi perdo alla scoperta di una città rispetto sempre due regole fondamentali: viaggiare in treno per raggiungerla e spostarmi unicamente a piedi per visitarla. La prima regola ha a che fare con la mia personale scelta di utilizzare i mezzi pubblici, fucina inesauribile di stimoli sensoriali che si trasformano in semi per altre storie. La seconda è saldamente ancorata al senso che voglio dare al viaggio anche se ben presto si rivela una sfida con me stessa, per mettere alla prova la mia resistenza.
L’idea di trascorrere il Ferragosto a Milano, a piedi, in una città deserta e sotto il sole che non perdona, mi è venuta come al solito all’improvviso. Mi è sembrata buona da subito, perché mi stuzzicava un trekking urbano in una città che ho sempre snobbato: troppo caotica, troppo veloce, troppo distaccata.
Ho tracciato il percorso srotolando una quindicina di kilometri per la maggior parte all’interno dei bastioni, la cinta muraria di epoca spagnola, andando alla ricerca di qualcosa, e non sapevo ancora bene cosa, di particolare e ignorando volutamente il già visto, il già fotografato.
Fa caldo e il treno ha quell’odore pungente di ruggine e olio bruciato, inconfondibile e lievemente nauseante. La città dorme e non ha alcuna voglia di svegliarsi, perché è presto, dannatamente presto ed è giorno di festa. Siamo io, lo zaino e qualche colombo ancora assonnato alla ricerca di briciole di pane.
Stazione Centrale Milano..è davvero troppo presto!
Mi lascio alle spalle l’imponente ingresso del Castello Sforzesco combattendo l’istinto di dare una sbirciatina alla Pietà Rondanini, il capolavoro incompiuto a cui Michelangelo lavorò fino a poco prima della morte e varco le porte di Brera, il quartiere bohemienne nato attorno all’Accademia di Belle Arti, all’Orto Botanico e alla Pinacoteca. Avevo letto che un giovane Mozart soggiornò per tre mesi presso la Canonica di San Marco e mi affascinava la storia della Basilica, costruita laddove il Naviglio della Martesana entrava nella città. Trovo la chiesa, edificata in stile gotico e mi intrufolo prima della funzione, per dare un’occhiata al magnifico organo ligneo che fu suonato proprio da Mozart durante il suo primo soggiorno milanese.
In fondo a via San Marco il letto del Naviglio della Martesana è ancora visibile così come le grandi porte coi possenti battenti in legno che bloccavano il passaggio dell’acqua. Sono quelle progettate da Leonardo da Vinci e disegnate nel “Codice Atlantico” conservato nella Biblioteca Ambrosiana. E’ una Milano che profuma di cortili fioriti, lenzuola stese al sole e nostalgia.
Il passato e il futuro si scrutano da vicino, lontanissimi nelle loro rispettive dimensioni temporali, compagni di viaggio nel mio urban trekking. La guglia del grattacielo Unicredit proietta la sua ombra nella bella piazza tutta fontane disegnata da Gae Aulenti. Un universo bello, perfetto, geometrico e morbido allo stesso tempo. Qui ti senti Dio perché sai che tutto accade, tutto è raggiungibile. Il progetto della città ideale è roba vecchia, puzza di Rinascimento e ogni tanto torna di moda. E Milano lo impersona egregiamente con il suo Bosco Verticale e la sua Biblioteca degli Alberi, un giardino botanico in cui sono messe a dimora più di 100 specie diverse di piante.
Dopo questo pieno di natura assordante e sfacciatamente green, ho bisogno di silenzio, di decori liberty e fenicotteri rosa. Li trovo in una manciata di strade chiamate Quadrilatero del Silenzio. I ritmi si fanno ovattati ed è un ottimo esercizio scovare arieti, pesci, cani e leoni sulle facciate decorate dei bei palazzi o sbirciare la danza sinuosa dei fenicotteri rosa di Villa Invernizzi. Il papà del “Formaggino Mio” importò negli anni Settanta alcuni esemplari di fenicotteri dall’Africa. Si trovarono talmente bene che i loro discendenti sono ancora qui e si godono il fresco nel giardino liberty della bella villa.
Ho fame, il panino gourmet di Eataly non ha placato la mia voglia. Ho fame di qualche altra curiosità, qualche storia non raccontata. Fa caldo e la luce del pomeriggio arroventa le guglie del Duomo. Passo oltre e raggiungo San Bernardino alle Ossa. La cappella è interamente ricoperta di teschi e ossa, disposti nelle nicchie, su cornicioni, pilastri e porte. Le ossa costituiscono anche le decorazioni delle pareti. I resti appartengono probabilmente ai morti dell’ospedale del Brolo, dedicato alla cura dei lebbrosi, ormai distrutto e alle salme traslate dai cimiteri seicenteschisoppressi. I teschi chiusi nelle cassette sopra la porta d’ingresso sono quelli dei condannati a morte. Non tragga in inganno il lettore questa mia vena dark e non si creda che sia incline ad una sorta di attrazione estatica nei confronti di scheletri ed affini. Si sappia invece che il culto dei resti affonda le radici della storia cristiana ma è presente in tante culture. Ha a che fare con le reliquie, il sacro e l’antropologico e rappresenta il desiderio dell’uomo di sfidare la morte: quella ricerca interminabile di una eternità che non ci appartiene.
Ci passo davanti due volte e non la vedo. Frustrazione assoluta. La mappa non sbaglia, deve esserci! Ritento, controllando il percorso sul GPS e la noto. San Satiro. A prima vista niente di eccezionale, una cappella nascosta tra i palazzi di Via Torino, anonima, insignificante. Entro nell’ora del vespro. Silenzio; una vecchia inginocchiata che prega, il sagrestano che accende una candela.
Osservo davanti a me la parete alle spalle dell’altare. Il grande spazio è formato da un’abside regolare e ben completata da colonne e decorazioni. Procedendo verso l’altare ci si accorge che non si può passare, poiché c’è poco meno di un metro di spazio. E’ in realtà un’illusione ottica, una prospettiva illusoria perché l’abside non esiste. Questo inganno prospettico è opera di Donato Bramante, uno dei più grandi architetti italiani, che ha fatto fronte allo spazio ridotto della chiesa per creare la finta abside che misura 97 centimetri invece di 9 metri e 70 previsti in quello che era il progetto originale. Quello che nacque come un impedimento alla diocesi che non aveva i permessi per costruire una chiesa di più ampie dimensioni si è evoluto poi in un risultato inaspettato, vero e proprio capolavoro artistico. Il Bramante, sfidando le limitazioni, ha infatti creato l’illusione perfetta e la finta fuga prospettica di San Satiro è considerata l’antesignana di tutti gli esempi di trompe l’oeil che vennero successivamente.
Sul treno della sera ho tempo per qualche considerazione e mi do nuove regole: viaggiare significa scoprire che tutti hanno torto ed io mi sono lasciata invischiare in squallidi luoghi comuni; le città sono un terreno accidentato fatto di continui saliscendi tra le epoche, cambi di direzione, dentro e fuori, sono sanguisughe che ti prosciugano, sirene che ti ammaliano, sono un già visto che ti obbliga a tornare.
Comments